"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni è un romanzo che riesce a essere sia profondo sia filosofico pur partendo da una premessa insolita: la voce narrante è una faina. Archy, questo il nome del protagonista, si interroga sulla vita e sulla morte in un mondo animalesco che, però, somiglia terribilmente al nostro.
Il viaggio di Archy è un percorso di crescita doloroso, che parte con un abbandono, e che poi prosegue attraverso inganni, apprendimenti e scoperte che riflettono i dilemmi umani più universali. C’è un’atmosfera fiabesca, ma si tratta di una fiaba oscura, che non si fa troppi problemi a mostrare la brutalità della natura (sia umana sia animale).
"Non vivevo un momento così sereno da quando avevo ucciso la gallina. Senza dubbi, o domande. Il presente era ritornato ad essere il mio mondo per qualche attimo, e fuori da quello, il nulla. Ero un animale. Ero felice."
Archy, imparando a leggere e a scrivere, si rapporta a quei concetti astratti che lo separano sempre più dagli altri animali e lo avvicinano al mondo umano. Ma il prezzo della conoscenza ha anche una duplice condanna: da una parte rende la sua storia profondamente malinconica, dall’altra lo espone a una sofferenza maggiore. Per certi aspetti, Archy ricorda la Creatura di Frankenstein. Entrambe le figure si trovano in una condizione liminale di consapevolezza acquisita che, paradossalmente, non facilita la loro integrazione ma ne accentua l’isolamento. La Creatura, dopo aver appreso autonomamente il linguaggio e la lettura, viene respinta con orrore dalla società umana; analogamente, Archy sperimenta l’abbandono quando viene allontanato dal suo nucleo familiare. In entrambi i casi, l’acquisizione della conoscenza non conduce all’accettazione ma a una dolorosa consapevolezza della propria condizione.
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