Come successo in passato, questo libro di Laura Imai Messina non mi ha convinto del tutto. Anche in questo caso, però, come le altre volte, l'ho terminato sapendo che leggerò comunque il prossimo che pubblicherà, perché la sua scrittura tocca qualche mio nodo e sento che la sua opera migliore debba ancora arrivare: è in lavorazione, e questo volume, "Quel che affidiamo al vento" e "Tokyo tutto l'anno" li considero i suoi esercizi preparatori.
La storia raccontata ne "L'isola dei battiti del cuore" e la sua origine qualche anno fa a Teshima non mi erano del tutto sconosciute, seguendo io l'autrice su Facebook e Instagram, ma non credo sia per questo che ho trovato il libro un po' noioso nelle prime centocinquanta pagine, con anche qualche forzatura. Uno dei motivi principali per cui l'ho letto era proprio approfondire Teshima e il suo archivio unico al mondo, a cui però è stata dedicata solo una piccola parte della narrazione, per quanto cruciale.
Ancora una volta mi hanno colpito le note finali nei ringraziamenti, che mi hanno portato a ripercorrere alcuni estratti che avevo salvato e a unirne i puntini a mio modo. Ed è questo che mi invita a continuare a seguire gli scritti futuri di Imai Messina.
"Tutto parte da un 'sì' che si pronuncia chiaro alla vita. Provare, intanto, e immaginare che si riuscirà. Il resto poi si vedrà." (pag. 292). Nulla infatti è garantito sull'esito, però intanto queste prove, questi tentativi bisogna prima immaginarli, perché è l'assunzione di poter essere felici che ci porta alla felicità, sostiene Imai Messina in più passaggi. Anzi, spesso questa assunzione si manifesta sotto forma di numerosi scenari: "E se...?"
"In proporzione, pensò, è tanto maggiore la vita che sogniamo rispetto a quella che realizziamo. Perché allora dare più valore alla realtà che al sogno?" - Pag. 253
Oltre a immaginarli, però, questi scenari, alcuni dobbiamo anche metterli in atto, concretizzarli, perché è la realtà quella che fa sussultare, accelerare o rallentare, il nostro battito; sono gli accadimenti imprevedibili o forti, che rimangono conservati nella storia di quell'incessante muscolo a cui tutti diamo un valore speciale. E lo sapevano bene anche i latini che avevano definito il verbo "recŏrdari", perché il cor, cordis era ritenuto la sede della memoria e non volevano dimenticarselo, toglierselo dalla mente, anzi: scordarselo.
La memoria è "una questione di volontà, nient'altro" (pag. 280), i cui "ricordi se ne stanno buoni e zitti per anni e poi esplodevano insieme, come i bambù dello stesso ceppo che, ovunque fossero stati piantati nel mondo, fiorivano nello stesso giorno" (pag. 121). E sono quei ricordi a cui ci aggrappiamo come corde - pure se etimologicamente siamo distanti, pure se queste a volte stringono troppo o le mani si strinano tenendole - che ci danno linfa per generare nuove ipotesi di noi, felici.