In collaborazione con la "Confraternita dei Santi Faustino e Giovita", per la celebrazione della giornata dei Santi Patroni di Brescia, si espongono edizioni antiche e moderne della storia della Colonna Infame e delle cronache da cui Manzoni trae informazioni. In mostra anche riflessioni contemporanee, che dalla Colonna infame traggono ispirazione, accompagnate da trattati antichi sulla peste e la tortura che evidenziano l'evoluzione del pensiero sulla "giustizia" dal Seicento al Settecento illuminista.
LA COLONNA INFAME
Un filo ininterrotto di riflessione
a cura di
Nadia Compagnoni, Ennio Ferraglio, Anna Rota
La “Colonna infame”: un caso di malagiustizia
Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.
La catena di eventi: durante la peste, una donna, con una sciagurata testimonianza ispirata da pregiudizio e superstizione, accusa un uomo di essere un malvagio “untore”, cioè di spargere il morbo. Sottoposto a tortura, l’uomo, sperando di salvarsi, rivela una congiura e fa il nome di un complice. Entrambi vengono dunque ulteriormente torturati perché ammettano la loro colpevolezza. Infine entrambi vengono condannati a morte e sottoposti ad un pubblico supplizio.
Il contributo di Alessandro Manzoni alla cultura politico-giuridica italiana, ispirato alla convinzione che la relazione tra diritto e governo fosse un aspetto fondamentale nelle vicende umane, è assai rilevante e di indubbio valore.
Nell’edizione detta “quarantana” (perché pubblicata nel 1840) de I promessi sposi, Manzoni aggiunse, in appendice, una narrazione storico-giuridica, originariamente inserita nella prima redazione del Fermo e Lucia ma che nella redazione cosiddetta “ventisettana” del romanzo era stata espunta, rimandando ad una futura, separata, trattazione. Si tratta della Storia della colonna infame, cioè la narrazione di un caso giudiziario, o di inchiesta, pretesto per parlare della superstizione popolare e denunciare le agghiaccianti aberrazioni nell’amministrazione della giustizia. Nella Colonna infame convergono fonti e generi eterogenei: narrazione storica, cronaca, atti processuali, interpretazione dei documenti, approfondimenti di carattere filosofico e morale, dottrina e molta precisione narrativa.
Manzoni pensava di poter scovare la verità tramite la scrittura e il racconto, facendo emergere un abisso di terrore ed ingiustizie, senza celare il giudizio sul lavoro degli storici che, prima di lui, si erano interessati alle cause della peste (Ripamonti e Muratori in primis) e segnalando i limiti della spiegazione storico-antropologica proposta da Pietro Verri, che additava la crudele posizione dei giudici all’ignoranza di fondo e alla barbarie della giurisprudenza del secolo precedente. Per Manzoni era necessario indagare se i giudici, che avevano permesso torture atroci ed emanato condanne capitali, fossero mossi da un sincero quanto deviato senso di giustizia, quale fosse la loro reale capacità di valutare secondo giustizia e se avessero la percezione di compiere un atto coscientemente ingiusto e crudele.
Il “Memorando contagio” nei trattati antichi
“Memorando contagio”, “gran peste” o “gran contagio”, così i contemporanei chiamavano la peste bubbonica del 1629-1633. Fu un evento ricordato per decenni, che sconvolse gli animi di chi era sopravvissuto e vide il fiorire di testi a stampa che cercavano di raccontare e fare il punto, per dare una spiegazione ad un evento storico di grandissima rilevanza per tutte le classi sociali.
La peste era considerata in quel periodo come una punizione divina: già nel 1631 ce lo racconta così Francesco Pona nel suo trattato sulla peste a Verona: «Quando mosso il Rettor supremo, dal lezzo degli errori della traviata Provincia, risolse di vibrar il fulmine della ira giustissima sopra di essa. Si sentirono i preludi del terribile ma lento castigo, nelle Morti degli armenti che con insolito eccidio cadevan l’uno dopo l’altro …e altresì nella fame comune a tutta Italia… e potevasi ancora togliere con la penitenza il flagello della mano divina… ma i cuori accecati e induriti non vedevano…»
A questa premessa segue una cronaca degli eventi con descrizione delle morti e dei rimedi che il Consiglio dei Dieci mise in campo dando ordini riguardanti l’igiene pubblica, la sepoltura dei morti e la quarantena. Il finale è però sempre in linea con la superstizione perché «l’Antidoto più potente contro il Morbo», dice il nostro autore, è «la divotione del Santissimo Rosario».
Una testimonianza più tarda, del 1648, che riguarda il Ducato di Milano, scritta dal medico e fisico Alessandro Tadino, dal titolo Raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste …con diversi antidoti, ci rende l’immagine di uno stato molto efficiente che mette in campo idee e rimedi con uno sguardo quasi scientifico.
Interessante è anche il Memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630 Historia scritta d’Ordine pubblico, di Lorenzo Ghirardelli del 1681. Si tratta di un racconto, tratto dalle memorie manoscritte del Cancelliere, edito cinquanta anni dopo i fatti, in otto libri dai figli dell’autore. La cronaca inizia quando «...si cominciano à scuoprire pericolose infermità, e si fanno pubbliche orationi»; racconta l’impotenza del Consiglio della città di Bergamo verso la pandemia, le azioni per ridurre il contagio messe in campo, e infine la resa: non c’era scampo a «tanto male» tanto da «riuscir vana l’applicazione degl’humani rimedij, altro non potersi fare... che ricorrere con pubblico voto della Città all’infinita misericordia di Dio». La descrizione di Ghirardelli, molto dettagliata e non priva di compassione verso le vittime, oltre che meno credula sulle unzioni rispetto agli autori milanesi, fu apprezzata da Alessandro Manzoni che la utilizzò tra le fonti dei Promessi sposi.
Per Brescia le memorie della pestilenza sono affidate alle cronache bresciane manoscritte dal medico Marco Antonio Ducco, continuate proprio nel 1630 dal nipote Lucillo e poi da Geronimo e Pietro Ducco. La prima pubblicazione di parti di queste memorie riguardanti la peste del 1630 è inserita nel terzo volume dei Ragionamenti di cose patrie ad uso della gioventù di Francesco Gambara. Scopriamo nella relazione alla città dei due medici Antonio Ducco e Gianbattista Soncini inviati a Palazzolo per analizzare le morti sospette un notevole spirito scientifico: «Di siffatta influenza pestilenziale erroneo sarebbe colparne l’aria celeste o le putride esalazioni del terreno; ma fermamente riconobbimo che venisse dal commercio con i paesi ammorbati... Queste sono le circostanze, Ecc.mi Signori, dei fatti che giudicammo convenevole riferirvi, acciocché procuriate di vietare quale siasi comunicazione con i luoghi infetti, causa precipua della diffusione del morbo».
Infine il racconto principale da cui Manzoni trasse spunto è il trattato De Peste di Giuseppe Ripamonti. L’autore racconta che la popolazione non voleva credere all’esistenza del morbo e quando il contagio fu evidente, l’arcivescovo Federico Borromeo portò in processione le reliquie di San Carlo, aggravando in questo modo la pestilenza. La città di Milano diede poi disposizioni sanitarie per evitare il contagio, ma la terribile situazione spinse la popolazione a cercare un capro espiatorio: gli untori, resi famosi dalle parole del Manzoni.
La iniquitas della tortura
Il termine tortura deriva dal verbo latino torquere: torcere il corpo. Si attestano pratiche di questo tipo già presso gli Egizi, i Greci e i Romani destinate inizialmente agli schiavi ed in seguito utilizzate anche per i malfattori comuni. La tortura è nell’antica Roma uno strumento giudiziario legale per punire o per far confessare i sospettati di qualche reato, è però una pratica che si attua solo in casi limitati. Più frequente sarà dal 1252 quando Papa Innocenzo IV autorizza questa pratica contro gli eretici, seppur con regole riguardo alle modalità: la tortura deve durare pochi minuti e non lasciare danni permanenti, in quanto si punta ad ottenere il pentimento dell’accusato. Un ripensamento sull’opportunità, l’iniquitas, di simili pratiche nasce contestualmente all’illuminismo nelle opere di Beccaria e di Verri.
Scrive Beccaria nel trattato Dei delitti e delle pene: «Se un delitto è certo, inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi torturare un innocente perché tale è secondo le leggi un uomo i cui delitti non sono provati». Verri invece analizzando i processi del 1630 a Milano sostiene che la tortura non è un mezzo per ottenere confessioni veritiere, perché i terribili tormenti inflitti generano confessioni false.
La Biblioteca Queriniana costudisce, a testimonianza dell’uso concreto della tortura, alcuni testi significativi, sia manoscritti che a stampa. Nelle Historie Bresciane del Rossi, del sec. XVII (Ms. B.VI.27) alla c. 15r troviamo un disegno molto dettagliato sulla tortura inflitta ai santi Faustino e Giovita. Nel manoscritto Ms. I.II.2 della Historia di Brescia del Nazari troviamo due tavole con disegni che illustrano vari tipi di tortura e supplizio con carrucole, ruote e altri strumenti. Interessante è anche il testo a stampa del 1547, che contiene il De iudiciis et tortura (1493) di Francesco del Bruno da Sanseverino, nel quale il giudice ammette serenamente l’uso della tortura negli interrogatori, ma anche come pena per il reo. Questo testo farà scuola per più di cento anni.
Dello stesso anno è il Tractatus de hereticis et sortilegijs... di Paolo Grillandi nel quale si parla della tortura da usarsi non solo negli interrogatori ma anche come pena, in base alla gravità dell’accusa. È solo nel Settecento che iniziano i trattati controcorrente come quelli di Beccaria e di Verri; di questo tipo, in Queriniana si trova il Tribunal reformatum,...di Johann Greve il quale, dal carcere ad Amsterdam scrive, verso la fine del Seicento, mettendo in evidenza come l’uso della tortura da parte dei cristiani sia aberrante e si interroga lungamente su questa pratica.
Dei delitti e delle pene: da Beccaria a Verri
Cesare Beccaria (1738-1794) è uno dei più importanti esponenti dell’Illuminismo italiano. Dalla frequentazione del cenacolo di casa Verri, dove aveva sede la redazione della rivista politico-letteraria «Il Caffè», nonché dalle letture intense di testi soprattutto francesi ( Montesquieu e Rousseau), nacque l’opera giovanile Dei delitti e delle pene (1764) che, partendo dallo stato deplorevole della giustizia penale, laicizzava il diritto penale separando il concetto di peccato da quello di reato, proponendo una trasformazione radicale degli equilibri politici e istituzionali dell’antico regime.
L’opera ebbe immensa fortuna europea e costituisce un caposaldo del pensiero giuridico penalistico, dando voce a una concezione utilitaria e umanitaria che comportava l’abolizione della tortura e della pena di morte.
Il successo dell’opera fu immenso: esaltata dalle più alte personalità del tempo, fu commentata da Voltaire.
La più radicale e dura confutazione dell'opera del Beccaria venne dal padre F. Facchinei che nelle sue Note ed osservazioni lo accusò di avere offeso la religione e l'autorità sovrana, ma i Verri lo sostennero con una Risposta ad uno scritto che s’intitola Note ed osservazioni sul libro Dei delitti e delle pene, erroneamente attribuita allo stesso Beccaria.
L’opera Dei delitti e delle pene eccelle anche per la lucida critica ai metodi giudiziari del tempo (come la tortura e la pena di morte) dominati dall'arbitrio dei giudici e non rispondenti ai loro stessi fini.
Il rifiuto della pena di morte e della tortura
Qual può essere il diritto, che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? … Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio.
La pena di morte definita «una guerra della Nazione con un cittadino, perchè giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere», è inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato. Essa non è un vero deterrente e non è assolutamente necessaria in tempo di pace. La pena di morte non svolge un'adeguata azione intimidatoria, poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù.
La tortura è «una crudeltà … un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione se non quando sia deciso, ch’egli abbia violati i patti, coi quali fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la potestà a un giudice di dare una pena a un cittadino, mentre si dubita sia reo, o innocente?», definita anche «l’infame crogiuolo della verità». Beccaria confuta lo strumento della tortura con varie argomentazioni: esso viola la presunzione di innocenza; consiste in una pratica che causa atroci sofferenze e questo è inaccettabile perché, se il delitto è certo, questo porta alla pena, ma se non è certo si tormenta un possibile innocente; induce a false confessioni poiché lo sventurato stremato dal dolore, affermerà qualsiasi falsità per porre fine alle torture.